Non so se capiti normalmente a chi svolge la professione di psicoterapeuta di chiedersi, ad un certo momento, fino a che punto la psicoterapia aiuti la persona a “guarire” dai suoi problemi.
A me è capitato. E questo, se in un primo momento mi ha fatto vivere una stasi critica, in seguito ha portato ad una trasformazione alchemica della mia percezione della realtà.
Tornando alla domanda di partenza, mi viene subito in mente quanto affermato da molti: la psicoterapia non guarisce l’individuo, ma lo aiuta senz’altro a stare meglio.
Certo, ogni ambito terapeutico ha la propria visione della realtà “oggettiva” e “soggettiva”, e i propri strumenti di aiuto ad essa collegati.
La mia specifica formazione ed esperienza professionale gestaltica mi ha fornito l’opportunità di puntare i riflettori, ad esempio, sulla capacità di autorealizzazione insita in ogni essere umano, così come in ogni essere vivente.
In quest’ottica, è importante che il lavoro psicoterapeutico non perda mai di vista la peculiarità ed unicità di ogni singolo individuo e rispetti profondamente i tempi, le modalità ed il livello di autorealizzazione di ognuno, al di là di ogni ipotesi prognostica.
In realtà, comunque, fornire gli strumenti per arrivare ad un certo grado di autorealizzazione non equivale quasi mai ad innescare profondi processi di autoguarigione.
Ho sempre più prove esperienziali del fatto che, fin quando si punta a prendere in considerazione i processi mentali e/o corporei, se pur nella loro unità, si taglia fuori dall’individuo la sua vera essenza, il suo vero motore vitale che, anche se si “serve” di ingranaggi come la mente ed il corpo per esprimersi, non può certo identificarsi totalmente con essi.
Mi riferisco qui alla parte spirituale che utilizza l’esperienza per evolversi, che è motore perché è intenzionalità pura, al di fuori da ogni automatismo che invece è sperimentabile sia dalla mente che dal corpo.
La considerazione di questo terzo elemento costituente dell’individuo, terzo non certo in senso di importanza, a mio avviso fa cambiare anche la prospettiva di qualsivoglia relazione terapeutica di aiuto.
Lo spirito non è vincolato da limiti, a differenza degli altri due piani esperienziali.
Non esiste dunque, partendo dal piano spirituale, l’eventualità di “non potere”, bensì semmai quella di “non volere”; ciò porta a fare un grosso salto di prospettiva considerando ogni individuo come potenzialmente capace di scegliere consapevolmente, al di là del contesto socio-culturale di appartenenza e al di là di qualsivoglia condizionamento ad esso legato.
Scegliere, ad esempio, di mangiare o digiunare o mangiare l’indispensabile, di dormire o stare svegli o in dormiveglia, di ammalarsi o stare bene o benino, e così via, la lista potrebbe essere interminabile…
Dalle mie personali esperienze vissute al di fuori della formazione psicoterapeutica (che comunque ripercorrerei identica), e dai miei viaggi in terre e culture distanti dalla nostra, ho appreso quanto sia grande la capacità del nostro spirito di fare esperienza e quanto altrettanto grandi possano essere gli ostacoli che la nostra mente, i nostri condizionamenti, i nostri automatismi possono frapporre per bloccarla o comunque impoverirla.
Così come la capacità di autoguarirsi può essere molto più profonda se diveniamo consapevoli e lasciamo esprimere anche questa nostra parte spirituale.
Ho avuto modo di incontrare diversi maestri di crescita sul mio cammino, di sperimentare, ad esempio, tecniche di guarigione provenienti da tradizioni molto antiche e che ancora oggi vengono praticate usualmente da molte popolazioni, come la “Caccia all’Anima” o “Psiconavigazione”. Questa tecnica, ad esempio, parte dal presupposto che qualsiasi trauma psicologico o fisico, o evento spiacevole, innesca, come meccanismo di difesa nei confronti del dolore, quello che viene chiamato “distacco di un pezzo d’anima” (con un processo di per sé equivalente ad un meccanismo di difesa psicologico, con la differenza che agisce ad un livello molto più profondo di quello comunemente preso in considerazione in psicoterapia), minando l’integrità profonda della persona.
Questa tecnica, presente da millenni in tutte le culture tradizionali del nostro pianeta, sia orientali che nell’America precolombiana, permette all’individuo di recuperare questi pezzi d’anima “ripuliti” dalla sofferenza legata all’evento traumatico o comunque spiacevole.
Quando ho sperimentato tecniche come quella appena descritta mi sono subito detta che le avrei usate solo per la mia crescita personale, condizionata, capisco ora, dallo stereotipo riassunto dalla frase comune “gli psicologi sono folli e strani”.
Fortunatamente, però, la Realtà mi ha posto a confronto con eventi e contesti che quasi naturalmente mi hanno indotto a cambiare prospettiva.
Dal momento che ritengo non molto utile non condividere ciò che si ha e si sa, avere sperimentato degli strumenti di aiuto olistici molto validi ha fatto scattare la molla che mi ha spinto a metterli a disposizione anche delle persone che mi chiedevano aiuto come psicoterapeuta.
La preoccupazione di squalificare la mia professionalità a causa dell’utilizzo di tecniche non propriamente psicologiche si è così dissolta naturalmente.
Da appartenente al sesso femminile non posso non far notare, tra l’altro, che l’origine di molte tecniche di guarigione tradizionali sono frutto di un periodo arcaico, risalente a circa 30 mila anni fa, definito dagli antropologi era matriarcale. Esso è stato caratterizzato, tra le altre cose, dall’equilibrio tra emisfero destro ed emisfero sinistro del cervello, e dunque da una naturale sinergia tra approccio intuitivo e approccio razionale verso la realtà.
In tale periodo la donna veniva considerata come portatrice della conoscenza, conseguenza questa del riconoscerle le sue innate tendenze intuitive che permettevano un rapporto sicuramente più diretto con la Natura e la Realtà nelle loro espressioni più profonde e sacre.
Purtroppo, però, la trasmissione scritta della storia dell’umanità è sempre stata controllata da impostazioni di pensiero in chiave maschilista, patriarcale, che hanno così distorto la nostra conoscenza del passato. In tal senso autrici come Riane Eisler e Marija Gimbutas stanno contribuendo oggi a diffondere un’altra lettura, documentata da numerose testimonianze archeologiche e antropologiche, della stessa storia che abbiamo sempre “conosciuto”.
Da altri punti di vista, proprio nel periodo che stiamo vivendo, sta diventando sempre più usuale guardarsi intorno e scoprire un numero sempre crescente di persone che sono alla ricerca di “altro”.
Nel mondo anglosassone ormai da tempo psicoterapeuti di matrice teorica diversa, hanno riscoperto tecniche provenienti da tradizioni molto antiche come integrazione al loro lavoro professionale. Ad esempio la psicoterapeuta Sandra Ingerman, molto nota negli Stati Uniti, è autrice di un interessante libro sul raffronto tra recupero sciamanico dell’anima e psicologia contemporanea.
Anche Elizabeth B. Jenkins, psicoterapeuta familiare che opera in California, nota anche in Europa in seguito alla pubblicazione di suoi libri relativi a contatti col misticismo andino e con maestri sciamani di quella tradizione (quali Don Juan Nuñez del Prado e maestri Q’eros), lavora da anni per trasmettere tecniche spirituali che conducono alla consapevolezza di sé in maniera molto diretta.
Oppure il lavoro condotto da John Matthews, un’autorità nel campo della tradizione celtica, che evidenzia come profondi elementi di guarigione si possano riscontrare nel ciclo arturiano del Graal e del Re Ferito, elementi utilizzabili anche in ambito psicoterapeutico “classico”.
O ancora Holger Kalweit, etnopsicologo e membro dell’associazione Transpersonale tedesca che ha condotto tutto un programma di studi sugli stati alterati di coscienza partendo dalla lettura transpersonale.
Lo stesso Abraham H. Maslow, autorevole rappresentante della Psicologia Umanistica, insieme a Frederick S. Perls, padre della “terapia gestaltica”, già negli anni ’60 ha collaborato con la Phoenix House di Chicago nell’ambito di un progetto governativo promosso da Frank Natale, denominato One Experience, volto al recupero dei reduci della guerra del Vietnam e dei tossicodipendenti senza l’impiego di farmaci.
La caratteristica innovativa del Progetto è stata la collaborazione tra maestri delle tradizioni sciamaniche e psicoterapeuti che, proponendo nella stessa One Experience tecniche provenienti dai due approcci, in poco tempo (nove giorni), hanno consentito il recupero dell’integrità psico-fisico-spirituale di ogni individuo che ha partecipato all’esperienza. Tutt’ora la One Experience ha questo obiettivo, la differenza è che non si rivolge più solo a persone con particolari traumi o psicopatologie, ma anche a coloro che intendo essere più consapevoli e crescere affrontando il proprio cambiamento.
Tornando alla persona che chiede aiuto in ambito psicoterapeutico, spesso essa ha come obiettivo primario quello di stare bene con se stessa e conseguentemente col suo mondo relazionale. E una volta creato un rapporto di fiducia nel setting terapeutico, può non essere di primaria importanza la metodologia utilizzata per sostenerla nel raggiungimento del grado di benessere che essa stessa, talvolta inconsapevolmente, si è prefissato.
Ovviamente, un elemento vitale perché si instauri concretamente un clima di fiducia è sempre la garanzia, non solo verbale, da parte dello psicoterapeuta, del rispetto a tutti i livelli della volontà della persona, compreso quello verso il ricorso a meccanismi di difesa mentali più o meno consci.
D’altra parte, vedere l’individuo in modo olistico ha senso solo se se ne prendono in considerazione i tre piani: corpo, mente, spirito.
Lavorando più su uno di tali aspetti e in altri fasi su un altro, a seconda del momento presente, del “qui e ora relazionale”, si raggiungerà come conseguenza un equilibrio ed una integrazione della parte più profonda, dell’Essenza, nelle sue manifestazioni nei tre piani. E questo, a mio avviso, è il modo più diretto per innescare un profondo processo di autoguarigione.
Tra l’altro ho avuto modo di sperimentare come le tecniche di cambiamento che partono o portano allo spirito, come quelle sopra citate, non siano in contraddizione con un approccio più mentale e/o corporeo, anzi lavorino in sinergia con esso.
Proprio un italiano, Roberto Assagioli, già negli anni ‘20 con la Psicosintesi, da lui ideata, ha introdotto la considerazione di una “dimensione superiore” nel suo approccio psicoterapeutico, senza nulla togliere all’aspetto mentale, ma anzi integrando più letture della stessa realtà.
Voglio concludere affermando che è possibile innescare processi di autoguarigione uscendo dalla prospettiva alquanto limitata e limitante di considerare la psicoterapia della Gestalt migliore, ad esempio, della Psicoanalisi, o la psicoterapia migliore dell’omeopatia, della naturopatia, della floriterapia, della meditazione, delle tecniche di guarigione sciamaniche o dei lavori con l’energia, e viceversa.
Ritengo profondamente valido un approccio olistico all’individuo ed il prendersi cura avendo come obiettivo l’apertura alla integrazione e sintesi di più metodologie.
Ciò che esiste è solo la Realtà unica e cangiante di ogni individuo e la sua intenzionalità che porta la sua essenza energetica a richiedere, a seconda del suo presente, anche inconsapevolmente, ora l’una ora l’altra modalità di aiuto.